Stimolazione cerebrale profonda: un “peacemaker per il cervello” ?
di Sonia Pasquinelli
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la depressione rappresenta la maggiore causa di invalidità nel mondo. Nonostante molti pazienti trovino giovamento in una varietà di trattamenti che spaziano dalla psicoterapia, ai farmaci, alla terapia elettroconvulsiva, il tasso di suicidi tra coloro che risultano refrattari ad ogni tentativo terapeutico arriva al 15%.
Su questa malattia si sono recentemente pronunciati i ricercatori della Cleveland Clinic, Brown University, e Massachusetts General Hospital presentando i risultati di uno studio effettuato da un gruppo multidisciplinare costituito da neurochirurghi, psichiatri e psicologi su 15 pazienti, gravemente depressi sui quali non aveva avuto successo alcun tipo di terapia.
Lo studio è stato presentato alla riunione annuale della American Association of Surgeons Neurologiche a Washington, DC.
Secondo questo ed una serie di altri studi recenti, la Deep brain stimulation (Dbs) sembra poter rappresentare una valida alternativa al trattamento farmacologico per i casi di depressione maggiore che non rispondono alle altre cure.
Di che si tratta?
La stimolazione cerebrale profonda è una tecnica che ha iniziato a essere sperimentata anni fa per contenere i tremori in alcuni pazienti sofferenti di Parkinson, ma “dal 2001 abbiamo iniziato a trattare pazienti con disturbo ossessivo compulsivo, con risultati promettenti. Questi studi ci hanno portato a iniziare dal 2003 alcuni esperimenti su pazienti con depressione maggiore intrattabile”, ha detto Ali R. Rezai, neurochirurgo della Cleveland Clinic (uno dei centri più avanzati nel settore) che ha diretto lo studio.
La tecnica consiste nell’impianto di sottilissimi micro-elettrodi che emettono impulsi capaci di inibire l’attività anomala di alcune aree cerebrali, bloccando i sintomi che essa determina, da quelli fisici, come tremori e dolore, a quelli psichici, come ossessioni, ansia, umore depresso.
Gli elettrodi sono collegati via i legare ad un generatore di impulsi interno (IPG) che è disposto nella parete della cassa. Un magnete è utilizzato con il IPG per registrare i parametri di stimolo in moda da applicare il livello adatto di stimolo alla punta dell’elettrodo. La procedura è paragonabile a quella di uno stimolatore cardiaco cardiaco che costantemente aiuta a raggiungere ritmo cardiaco equilibrato. Secondo la teoria, gli impulsi elettrici inviati attraverso uno dei miliardi di neuroni del cervello provocano il rilascio di sostanze chimiche, come dopamina e serotonina, che a loro volta stimolano le cellule confinanti a inviare nuovi impulsi elettrici ad altri neuroni.
La DBS presenta parecchi vantaggi rispetto le altre procedure neurochirurgiche: il successo del trattamento dipende dall’abilità dell’operatore nell’individuare con precisione la particolare zona da trattare. La Dbs è reversibile, non distruttiva e la terapia può essere modulata in ogni momento dopo l’impianto, poichè i parametri dello stimolo possono essere registrati per minimizzare gli effetti secondari potenziali e per migliorare l’efficacia col tempo.
«Io la paragono alla situazione dei pacemaker cardiaci di quaranta anni fa, quando ancora pochissimi li ricevevano come trattamento. Adesso ognuno di noi sa che cos’ è un pacemaker. E mi aspetto che la stessa cosa succeda per quelli neurali» commenta Ali Rezai «Al momento, – aggiunge lo specialista – esistono terapie farmacologiche che sono in grado di aiutare la maggior parte dei pazienti. Ma per un buon 10-20 per cento di questi le medicine non producono effetti. Un’ operazione chirurgica di tale entità, comunque, rimane l’ ultima appiglio se non ci sono alternative».
Il numero delle domande di terapia di DBS sta crescendo molto rapidamente, e attualmente una nuova ricerca viene condotta dalla St. Jude Medical, sempre riguardo l’efficacia nel curare la depressione.
Nello studio della Cleveland Clinic è stato condotto un follow up per un periodo variabile tra 6 e 48 mesi ed è stata riscontrata una riduzione della gravità della depressione e un miglioramento della qualità della vita in tutti i pazienti, dopo periodi variabili di tempo. “Penso che non appena avremo imparato di più su questa recente tecnica, l’efficacia continuerà a migliorare – continua Renzai – comunque è una notizia molto promettente per i numerosi pazienti e per i loro familiari che hanno praticamente rinunciato alla speranza”.