Anziani, fragilità e vulnerabilità sociale
Di Mauro Cavarra
Uno dei fenomeni caratterizzanti l’occidente di questi ultimi anni, l’Italia in particolare, è l’aumento del numero degli anziani. In seguito al miglioramento in campo sanitario, ed alla singolare condizione economica in cui versa il paese oltre ad essersi allungata l’aspettativa di vita per fasce sempre più ampie di popolazione, abbiamo assistito a un crollo delle nascite. Sembra che la media di nuovi nati ogni anno ottenga una leggera spinta verso l’alto grazie agli immigrati stanziatisi in Italia.
Questo fenomeno è responsabile di pesanti ricadute sul piano economico – politico –sociale: cambiando infatti la composizione della maggioranza degli italiani cambiano le loro esigenze in quanto popolo, e, senza scendere in dettagli pur estremamente interessanti e preoccupanti, come il fatto che lo stato si trovi adesso a dover pagare sempre più pensioni con sempre meno contribuenti lavoranti, una questione si pone all’attenzione della psicologia e della medicina. La condizione degli anziani. Uso il termine condizione ovviamente in broad-sense. In una società estremamente urbanizzata come la nostra che, spinta dal meccanismo consumista-globalizzante, tende a ridurre sempre più le occasioni di incontro che non siano centrate sulla produttività o sul consumo stesso, gli anziani si trovano spesso dalla parte degli sconfitti. Non c’è bisogno di ricorrere alle moderne neuroscienze per sapere che un anziano presenta numerose difficoltà d’adattamento, e se decliniamo quest’handicap fisiologico in un contesto i cui cicli di rinnovamento culturale si fanno sempre più rapidi ed in cui gli anziani aumentano di numero, possiamo intuire perché il problema sia così rilevante
Un enorme interesse è stato dedicato per tutta la storia della psicologia al campo evolutivo, ma la maggior parte degli scritti in proposito dipingono l’immagine di un individuo che attraversata la fase adolescenziale e divenuto adulto (termine che bizzarramente si sposta sempre più in là nel tempo), cessa di maturare e modificarsi. L’età adulta viene insomma prospettata come punto d’arrivo del processo evolutivo dell’individuo, come se raggiunta un’età che oscilla tra i 35 e i 40 anni, l’individuo dovesse restasse sempre identico a sé stesso. Ovviamente non è così. La psicologia dell’anziano è molto diversa da quella dell’adulto quarantenne in molti aspetti. Preso coscienza di ciò, non stupisce che negli ultimi anni la ricerca in campo psicologico – medico – assistenziale si stia muovendo sempre di più per cercare di identificare e comprendere le esigenze dell’anziano1 . Uno studio
recentissimo apparso su PLoS One, diretto da Andrew M.K., Mitnitski A.B. e Rockwood K.1, rappresenta uno sforzo in questa direzione.
Lo studio è stato condotto su un campione di soggetti Canadesi con un’età intorno ai 70 anni sottoposti ad una serie di test autovalutativi che misuravano la loro fragilità fisica, quindi gli handicap o disturbi fisici che influivano la loro vita quotidiana e il loro grado di vulnerabilità sociale, un costrutto che comprende una ampia gamma di elementi volti a valutare la qualità delle interazioni sociali: dallo stato civile, al supporto ricevuto da persone care, alle capacità comunicative, alle attività di svago intraprese ecc… Assumendo che questi due indicatori misurassero il grado di adattamento del soggetto nel contesto in cui vive, i ricercatori hanno cercato di capire se queste stime correlassero in qualche modo con la mortalità degli stessi soggetti. Innanzitutto da una analisi preliminare è emerso, come c’era da aspettarsi ,che le due misure, fragilità e vulnerabilità sociale, aumentavano proporzionalmente all’età. Un dato interessante rivela che esse correlano poco reciprocamente, cioè un individuo con molti deficit fisici, non necessariamente sarà un soggetto che avvertirà una alta vulnerabilità sociale e viceversa. L’analisi rivela però che sia la vulnerabilità sociale che la fragilità fisica contribuiscono ad abbassare significativamente l’aspettativa di vita di soggetti anziani, abbassamento che viene stimato intorno ai 5 anni per ogni componente della scala della vulnerabilità sociale presente nell’individuo.
Nonostante alcune minacce alla validità chiaramente evidenti, come il fatto che la ricerca si basa esclusivamente su questionari autovalutativi, questo studio si rivela estremamente interessante, ci mette infatti davanti alla chiara evidenza che il trascurare non solo la salute, ma anche l’integrazione sociale degli anziani significa peggiorare consistentemente non solo la qualità, ma persino l’aspettativa stessa di vita.
Una ricerca del telefono amico Italia rivela che i soggetti che soffrono di più per la solitudine sarebbero over 54, single, con basso reddito e residenti in città. Nel nord ovest del paese sono circa un milione. La dimensione cittadina probabilmente fa perdere una serie di contatti sociali che in realtà meno urbanizzate, come paesi o città più piccole, si mantengono in virtù delle distanze meno impegnative e della presenza di luoghi di aggregazione come le piazze. Una cosa che colpisce molto un “campagnolo” che giunge a Milano per la prima volta è proprio il fatto che spesso il termine piazza invece di indicare un luogo di ritrovo, si riferisce ad una rotonda…
1Marcello Cesa-Bianchi e T. Vecchi: Elementi di Psicogenrontologia
denis
buonasera, gentilmente potrei sapere qual è l’autore del contributo relativo alla ricerca sul campione di soggetti canadesi di cui parla in questo articolo e se gentilmente può linkarmi il sito in cui leggerlo per intero? Sono un tesista e ho trovato molto interessante quanto da Lei riportato!
ringraziandola, porgo distinti saluti